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Death Stranding 2: Recensione, Gameplay Trailer e Screnshot

Death Stranding 2: On the Beach è più di un videogioco. È un esperimento culturale su larga scala, un’opera che si nutre della nostra capacità di ascoltare, di lasciarci disorientare, di accogliere l’assurdo senza rifiutarlo, e di riflettere su cosa significhi essere umani in un mondo che ha perso i suoi riferimenti. Hideo Kojima, già autore di una delle saghe più visionarie della storia con Metal Gear Solid, torna qui a dimostrare che il medium videoludico può andare oltre l’intrattenimento per diventare introspezione, filosofia, cinema, sociologia, follia e poesia, tutto allo stesso tempo.

La storia di Sam Porter Bridges riprende undici mesi dopo gli eventi del primo Death Stranding. Sam ha appeso lo zaino al chiodo, almeno in apparenza, e vive una vita in disparte insieme a Lou, la bambina precedentemente nota come BB. Ma l’equilibrio fragile della sua esistenza viene nuovamente spezzato da una nuova minaccia e da una nuova missione: questa volta, non è l’America da unire, ma l’Australia. Una terra immensa, divisa, che reagisce con violenza a ogni tentativo di riconnessione. La Chiral Network è ancora una volta il filo conduttore, ma il messaggio è più maturo: ci siamo spinti troppo oltre nel voler unire tutto, e la natura sembra ribellarsi a una civiltà sempre più artificiale e disumanizzata.

La potenza narrativa di On the Beach non è solo nelle parole, ma soprattutto nelle immagini, nei simboli, nei silenzi. Kojima scrive con la macchina da presa, con il sound design, con le animazioni facciali millimetriche. La fotografia è magistrale, i paesaggi sembrano dipinti da un artista allucinato che ha visto l’Australia distrutta da mille cataclismi. Si passa da deserti marziani a città sommerse da catrame, da coste lunari a canyon devastati da frane: ogni luogo racconta una storia anche senza parlare. L’influenza del cinema è dichiarata, ma mai sterile. Non è semplice citazionismo: Interstellar, Mad Max, Pulse e Sorcerer diventano ingredienti di un pasto nuovo, cucinato con una ricetta tutta personale.

Il gameplay ha subito un’evoluzione profonda. Se il primo capitolo aveva affascinato molti ma respinto altri con la sua “simulazione del cammino”, Death Stranding 2 alleggerisce alcuni degli attriti senza rinunciare all’anima del gioco. Le consegne restano il cuore dell’esperienza, ma ora sono più varie, più creative, più dinamiche. La possibilità di usare nuovi strumenti come droni, boomerang di sangue, veicoli personalizzabili e addirittura un monorotaia elettrificata a sei carrozze cambia completamente il ritmo. L’introduzione anticipata dei mezzi e di una mappa più densa e sfaccettata rende la progressione molto più appagante e meno frustrante. Non è più solo questione di trasportare pacchi: è affrontare una natura viva, ostile, in continua mutazione.

La componente action è un’altra delle grandi rivoluzioni del gioco. Gli scontri, una volta limitati e spesso evitabili, sono ora parte integrante della narrazione e del gameplay. Le armi sono più varie, l’intelligenza artificiale dei nemici più aggressiva, e il design dei boss semplicemente memorabile. Ogni scontro ha una coreografia, una regia, un’identità visiva e sonora che lo rende un’esperienza a sé. Il confronto con Higgs, ora arricchito da una teatralità estrema degna del Joker di Heath Ledger, o le battaglie contro mecha tentacolari e mostruosità semidivine, sembrano uscite da un film di fantascienza d’autore. E poi c’è Neil, interpretato da un incredibile Luca Marinelli, personaggio ambiguo e tormentato, che regala alcuni dei momenti più intensi e introspettivi di tutto il gioco.

Il sistema di progressione è stato reso più profondo grazie a un sistema di perk che ricorda da vicino quello di NieR: Automata. È possibile personalizzare Sam con abilità specifiche: si può puntare sullo stealth, sulla forza bruta, sulla capacità di leggere il meteo o sulla cooperazione con gli altri giocatori online. Ogni azione contribuisce a plasmare l’esperienza: aiutare un altro utente a costruire una struttura ti renderà più visibile nella sua mappa, scegliere approcci pacifici ti darà strumenti diversi rispetto a chi abbraccia la violenza. È un mondo che si adatta a te, come se il codice del gioco fosse vivo, responsivo, empatico.

L’integrazione tra giocatore singolo e comunità è ancora una volta uno dei pilastri dell’esperienza. Le costruzioni degli altri utenti continuano ad apparire nel tuo mondo, ma ora è tutto più organico, meno invadente, più armonico. La cooperazione silenziosa, basata su “like” e piccoli gesti di aiuto reciproco, diventa un commento intelligente su come potrebbe funzionare una società che privilegia la condivisione non competitiva. È una forma di multigiocatore asincrono che ha ancora pochi eguali nel panorama videoludico.

Sul piano tecnico, Death Stranding 2 è un trionfo. Il Decima Engine si conferma una delle tecnologie grafiche più potenti e versatili in circolazione. L’illuminazione, la gestione delle superfici, le animazioni facciali, il rendering dei materiali: tutto è a un livello cinematografico. Ma la tecnica non serve solo per stupire: serve a raccontare. Ogni ruga di Sam, ogni goccia di pioggia, ogni granello di sabbia è al servizio della narrazione. La colonna sonora, come già nel primo capitolo, è un elemento narrativo fondamentale. Brani di Low Roar, Woodkid, e le composizioni originali di Ludvig Forssell scandiscono i momenti cruciali con una sensibilità impeccabile.

Ci sono scene in cui la musica arriva nel momento giusto con tale potenza emotiva da lasciare senza fiato. Alcuni finali di missione, accompagnati da canzoni malinconiche mentre si guida verso il tramonto su un’auto piena di pacchi e ricordi, sono pura catarsi. Dal punto di vista della scrittura, Death Stranding 2 è sorprendentemente coeso. Il primo gioco era stato accusato di essere eccessivamente criptico e verboso; qui invece la sceneggiatura riesce a mantenere equilibrio tra densità e chiarezza, tra astrazione e emozione. I temi trattati sono attualissimi: l’alienazione digitale, il lutto, l’ecologia, la guerra, la paternità, il ruolo dell’arte, la minaccia dell’intelligenza artificiale. Ma la cosa più potente è che ogni concetto non viene semplicemente enunciato, ma vissuto. Non è un gioco che ti dice cosa pensare, ma che ti fa sentire il peso e la complessità delle sue domande.

Il cast è uno dei punti più alti del progetto. Norman Reedus offre una performance più matura, meno rigida, più umana. Lea Seydoux riesce a dare profondità a Fragile, rendendola uno dei personaggi femminili più sfaccettati degli ultimi anni. Elle Fanning è magnetica, enigmatica, potente. Troy Baker nei panni di Higgs è un ciclone di carisma e terrore, un villain teatrale e irresistibile. E poi c’è Dollman, il manichino-pupazzo filosofico che accompagna Sam con battute assurde e riflessioni pseudo-letterarie, aggiungendo un tocco di leggerezza a un mondo pesante come il catrame in cui è immerso. Tutto questo non significa che il gioco sia perfetto. Alcune fasi iniziali possono risultare lente, e il sistema di inventario, pur migliorato, mantiene alcune rigidità ereditate dal primo episodio. Ma sono difetti minori, che scompaiono di fronte alla potenza dell’esperienza complessiva.

Death Stranding 2: On the Beach è un’opera che riesce là dove tanti altri sequel falliscono: non solo amplia l’universo originale, ma lo migliora, lo rende più solido, più profondo, più coerente. È un’esperienza totalizzante, che ti entra sotto la pelle, ti scombina l’anima, ti costringe a pensare, a sentire, a connetterti. È uno di quei giochi che esistono non per piacere a tutti, ma per rimanere nella memoria di chi è disposto ad ascoltarlo. Un capolavoro irregolare, ma di quelli che segnano una generazione.

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